“Sequestro e confisca per i reati tributari: ultimi orientamenti giurisprudenziali”
Relazione in occasione dell’incontro di fine anno presso la Fondazione dell’Avvocatura “Fulvio Croce” – Torino 18 Dicembre 2014
Nell’ambito dei reati in cui la finalità principale è rappresentata dal conseguimento di una illecita utilità economica, si è cercato negli anni di contrastare il fenomeno attraverso lo strumento della confisca, finalizzata alla sottrazione di tale illegittimo arricchimento.
Tale strumento, che con i limiti che di seguito esporremo si è rivelato fortemente dissuasivo ed efficace, sotto il profilo della prevenzione sia speciale che generale, veniva altresì rafforzato dalla facoltà di intervenire, già dalle prime fasi delle indagini preliminari, mediante l’istituto disciplinato dall’art. 321, comma 2, c.p.p., che consente al giudice di disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca.
La confisca, che possiamo definire come la spoliazione definitiva dei beni oggetto della misura, è in via generale disciplinata dall’art. 240 c.p., norma inserita nell’ambito delle misure di sicurezza patrimoniali.
Come noto, essa ha ad oggetto il prodotto, il profitto o il prezzo del reato; è pertanto necessario, secondo tale schema, individuare una diretta derivazione causale dell’attività illegittima del reo, secondo un criterio di pertinenzialità.
Fin da subito, si è potuto apprezzare l’efficacia della norma nella misura in cui, consentendo la sottrazione di tale illegittimo arricchimento economico, scoraggiava analoghe condotte sia da parte di chi, avendo già agito, si vedeva sottratto quanto illecitamente conseguito, sia da parte della generalità dei soggetti che potevano così osservare l’inutilità e la non convenienza dell’azione criminosa, stante la inevitabile mancanza del vantaggio patrimoniale.
Allo stesso modo, però, non poteva non rilevarsi l’inadeguatezza della stessa in relazione ad una serie di reati, quali quelli tributari, nell’ambito dei quali tale arricchimento è, nella gran parte dei casi, rappresentato da un risparmio di imposta.
Tale risparmio, infatti, non poteva essere oggetto di confisca in quanto non rappresentava il diretto conseguimento di un bene individuabile, bensì il mancato sostenimento di costi che in assenza della condotta il reo avrebbe dovuto sostenere.
L’efficacia di tale norma veniva, altresì, compromessa dal fatto che la confisca era prevista, inizialmente, come obbligatoria solo in relazione a quello che viene definito prezzo del reato, mentre era lasciata alla discrezionalità del giudice per quanto riguarda il profitto o prodotto del reato.
Così, in occasione della ratifica ed esecuzione di diversi atti internazionali, elaborati in base all’articolo K. 3 del Trattato dell’Unione Europea, la legge n. 300 del 29.9.2000 ha inserito nel codice penale, all’interno del titolo II del libro II, l’art. 322 ter c.p.
Si è, pertanto, intervenuti inizialmente in relazione ai delitti contro la pubblica amministrazione e, nello specifico, a quelli dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione di cui agli artt. 314-320 c.p.
Tale norma, da una parte, ha sancito l’obbligatorietà della confisca anche in relazione al profitto del reato, con ciò superando un limite enorme all’efficacia dello strumento, dall’altra, ha introdotto la possibilità di aggredire i beni di cui il reo ha la disponibilità mediante la confisca per equivalente.
Si osservi, però, che il primo comma dell’art. 322 ter c.p. prevedeva la facoltà di sottrarre attraverso la confisca per equivalente, solo i beni “per un valore corrispondente a tale prezzo”; dovrà attendersi oltre un decennio, perché il legislatore intervenga, alla luce dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale europea e sotto la spinta dell’OCSE, inserendo con la legge n. 190 del 6.11.2012, le parole “o profitto” nell’ultima parte del I comma dell’art. 322 ter c.p., che disciplina la confisca per equivalente.
Attraverso tale strumento, pertanto, è stata offerta la possibilità di procedere alla sottrazione dell’illecita utilità economica conseguita, senza la necessità di provare la sussistenza di un nesso di pertinenzialità del bene rispetto al reato, supplendo così alle insufficienze della confisca regolata, in termini generali, nel codice penale.
È, infatti, possibile aggredire tutti i beni che siano “nella disponibilità” dell’imputato per un valore relativo a quello del profitto (o prodotto, o prezzo) del reato, sempre che non si possa procedere alla confisca diretta dei beni costituenti il profitto o prodotto, o prezzo del reato, avendo il legislatore configurato la confisca per equivalente come istituto di natura residuale.
Si osservi, inoltre, come il legislatore abbia inteso disciplinare tale forma di intervento processuale non in via generale, bensì attraverso più interventi normativi ed in relazione a singole ipotesi di reato.
La legge n. 244/2007 – Finanziaria del 2008 – in risposta al fenomeno sempre più dilagante dell’evasione fiscale ha, infatti, esteso anche ai reati tributari la possibilità di intervenire con la confisca per equivalente e, conseguentemente, di agire già in fase di indagini preliminari con il sequestro preventivo.
Secondo l’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 “nei casi di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, 8, 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di cui all’articolo 322-ter del codice penale”.
Deve segnalarsi, infatti, che di fronte ad una scelta così fatta, cioè di non regolamentare in via generale la confisca, che ha inevitabilmente comportato una certa disarmonia nella disciplina, la Suprema Corte è più volte intervenuta auspicando, da ultimo con la nota sentenza a S.U. n. 38691 del 2009, un intervento normativo finalizzato al coordinamento dello strumento oggetto di esame.
La legge 300/2000 ha escluso l’applicabilità delle disposizioni dell’art. 322 ter c.p. ai reati commessi anteriormente all’entrata in vigore della stessa legge.
Poiché altre disposizioni che disciplinano tale tipo di confisca, non ne hanno previsto anche la irretroattività, si è aperto il dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la natura della confisca per equivalente e la sua conseguente applicabilità ai reati commessi anteriormente alla sua entrata in vigore.
La ragione della inapplicabilità della confisca per equivalente ai fatti di reato commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 300/2000, risiede appunto nella natura della stessa che, differentemente dallo strumento della confisca cd. “diretta” disciplinata dall’art. 240 c.p., avente una funzione preventiva-cautelare e non punitiva, è stata definita sostanzialmente “sanzionatoria”
Sulla tipicità della natura “sanzionatoria penale” della confisca per equivalente, si è espressa anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo (n. 307/A del 9.2.1995), la quale ha rilevato come essa costituisca una vera e propria “pena”, a causa del suo carattere tipicamente repressivo.
Come rilevato, inizialmente l’art. 322 ter c.p., comma I, nel disciplinare la confisca per equivalente, ne limitava l’applicabilità solo in relazione al “valore corrispondente al prezzo del reato”, senza alcun riferimento al “profitto”.
A ciò conseguiva una intrinseca inefficacia dello strumento della confisca per equivalente in relazione a tutta una serie di reati, come quelli di natura tributari, nei quali il cd. “profitto” non poteva essere oggetto della misura.
Si consideri, inoltre, la contraddizione con quanto previsto dalla legge 231/2001, che disciplina la responsabilità amministrativa dell’ente dipendente da reato, che prevedeva la confisca per equivalente anche in relazione al profitto.
Così la giurisprudenza di legittimità, da una parte, auspicava un intervento del legislatore già con la sentenza a S.U. n. 38691/2009 (intervento effettuato con legge 190/2012 che ha inserito le parole “o profitto”), mentre dall’altra riconosceva l’applicabilità del sequestro per equivalente del “profitto” anche in relazione ai reati commessi anteriormente al 2012.
Ciò sulla base della considerazione che l’art. 1, comma 143, della legge 244/2007, richiamando l’art. 322 ter c.p. nella sua interezza, consente di intervenire anche in relazione al profitto del reato, così come previsto dal comma 2 della norma codicistica.
Per quanto riguarda il valore dei beni da confiscare deve rilevarsi che, avendo la confisca una funzione recuperatoria e non risarcitoria, gli interessi legali e le sanzioni pecuniarie di natura amministrativa non devono esservi ricomprese salvo il caso in cui – come ad esempio si verifica nel caso di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte previsto e punito dall’art. 11 del Dlgs 74/2000 – tali accessori, facendo parte del profitto del reato, non debbano considerarsi come elementi costitutivi della fattispecie. (Cfr. Cass. pen. n. 129 del 22.11.2013)
Il pagamento del debito tributario, cioè la restituzione o la corresponsione dell’indebita utilità conseguita, prima della sentenza che definisce il processo, secondo la giurisprudenza maggioritaria impedisce l’applicabilità della confisca; tale conclusione si basa sul ragionamento secondo il quale il pagamento dell’imposta, da una parte, e la spoliazione dei beni attraverso la confisca, dall’altra, rappresenterebbero una illegittima duplicazione della sanzione.
La giurisprudenza, infatti, ha affermato come la restituzione del dovuto all’amministrazione finanziaria faccia venire meno lo scopo principale della confisca, in quanto restituendosi il profitto derivante dal reato si elimina in radice lo stesso oggetto sul quale dovrebbe incidere la confisca al Fisco. (Cfr. Cass. pen. n. 10120/2011; Cass. pen. n. 4956 del 8.2.2012)
Per completezza, si ricorda che una giurisprudenza ormai superata riteneva, viceversa, che anche in presenza di una preventiva restituzione del profitto illecitamente conseguito, si dovesse procedere con la confisca stante il suo carattere obbligatorio e l’autonomia tra il processo tributario e quello penale. Riteneva inoltre che il pagamento del debito tributario, differentemente dalla confisca, non avesse carattere sanzionatorio e che, pertanto, non potesse verificarsi la duplicazione della sanzione.
Nel caso di pagamento rateizzato o di fideiussione, invece, la confisca non potrà essere evitata, se non con il pagamento integrale del debito tributario.
Nel primo caso, infatti, il pagamento ancorché concordato potrebbe poi non essere adempiuto totalmente, nel secondo, invece, la finalità della sottrazione dei beni nei confronti del reo sarebbe vanificata dalla sostituzione di questi con i beni o denaro del fideiussore.
Si osservi, però, come si sia consolidata di recente una giurisprudenza che ritiene che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, qualora sia stato perfezionato un accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito tributario, non possa essere mantenuto sull’intero ammontare del profitto derivante dal mancato pagamento dell’imposta evasa, ma debba essere ridotto in misura corrispondente ai versamenti effettuati per effetto della convenzione, poiché, altrimenti, verrebbe a determinarsi una inammissibile duplicazione sanzionatoria, in contrasto con il principio, sopra esposto, secondo il quale l’ablazione definitiva di un bene non può mai essere superiore al vantaggio economico conseguito dall’azione delittuosa. (Cfr. Cass. pen. n. 6635 del 8.1.2014)
La confisca per equivalente presuppone in ogni caso una sentenza di condanna – o patteggiamento – nei confronti del soggetto che ha la disponibilità del bene, per un reato in relazione al quale sia prevista tale misura.
Non è, pertanto, consentita la confisca per equivalente nei casi di assoluzione o in presenza di una decisione di non luogo a procedere per estinzione del reato, casistica tra cui rientra anche il caso della prescrizione del reato.
A tal proposito, deve osservarsi come non possa applicarsi a questa misura quell’orientamento giurisprudenziale che consente la confisca “diretta” ex art. 240 c.p. anche in caso di estinzione del reato per prescrizione; in tali ipotesi il bene ha comunque un collegamento con il fatto reato, legittimante la conservazione del vincolo, che non sussiste nel caso di confisca per equivalente.
Si ricorda che non è necessario che il soggetto destinatario della misura abbia, in effetti, conseguito personalmente un vantaggio economico dal reato, come accade al legale rappresentante che agisce in nome e per conto della persona giuridica, unicamente in favore della quale si è prodotto il vantaggio economico.
In tal caso, la confisca avrà ad oggetto beni per un valore economico corrispondente all’utilità acquisita dall’ente a seguito della condotta illecita.
Tali beni, come già ricordato, dovranno rientrare nella disponibilità del reo, concetto sul quale è necessario svolgere una breve considerazione.
Innanzitutto, non è indispensabile che il soggetto destinatario della misura abbia una titolarità formale su tali beni, ma è pur sempre necessario che ne abbia una disponibilità o vi eserciti un potere di fatto.
Sarà, in tal senso, priva di effetti una eventuale intestazione fittizia o di comodo del bene, laddove esista in concreto un controllo diretto o indiretto dello stesso da parte del reo, ciò che ovviamente dovrà essere oggetto di rigorosa prova da parte dell’organo dell’accusa.
Può affermarsi, in sostanza, che i vincoli di tipo civilistico, aventi pienamente potere ed efficacia in tale sede, non operano allo stesso modo nell’ambito della disciplina della responsabilità penale, che è naturalmente meno sensibile alle regole che vigono in ambito civile.
Si osservi, in tal senso, come sia stato ritenuto legittimo il sequestro per equivalente di beni conferiti ad un trust, essendo emerso come il trustee continuasse di fatto ad amministrare tali beni, conservandone la piena disponibilità. (Cass. pen. n. 13276 del 24.1.2011)
Così come è stato ritenuto legittimo il sequestro di beni confluiti in fondo patrimoniale costituito dal reo in favore della famiglia.
A tal proposito, rimanendo i beni nella disponibilità del proprietario, si è osservato che le regole che disciplinano la garanzia patrimoniale a fronte delle responsabilità civili, non possono in alcun modo influenzare e condizionare la disciplina della responsabilità penale. (Cass. pen. n. 18527 del 3.2.2011)
Si rileva, da ultimo, come anche i beni in comproprietà possano essere oggetto di confisca per equivalente; in tal caso la confisca potrà avere ad oggetto soltanto la quota del reo, dovendosi poi attribuire al comproprietario, dopo la liquidazione del bene, la parte corrispondente alla quota allo stesso spettante.
Nel caso di concorso di persone nel reato, deve rilevarsi come la confisca per equivalente possa essere applicata sul patrimonio di un singolo concorrente, per il valore corrispondente all’utilità economica conseguita con l’attività illecita, anche laddove tale utilità sia stata in tutto o in parte conseguita soltanto da alcuni degli altri concorrenti.
Si pensi, ad esempio, al caso del professionista che concorre con il contribuente nel reato tributario – “extraneus” che concorre nel reato proprio altrui – e che da questo non ha ottenuto alcun vantaggio diretto, corrispondente ad un risparmio fiscale o ad un indebito rimborso.
La confisca per equivalente, infatti, è collegata alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito, non all’arricchimento personale dei singoli correi.
Mentre si ritiene che il sequestro finalizzato alla confisca possa colpire il patrimonio di ciascun correo, fino alla concorrenza del valore corrispondente all’utilità economica illecitamente conseguita, deve escludersi che la confisca, poi, possa in qualche modo essere duplicata.
La spoliazione definitiva dei beni complessivamente considerata, pertanto, dovrà essere limitata al valore corrispondente all’utilità economica complessivamente conseguita a seguito dell’attività illecita.
Come già rilevato, la confisca per equivalente può essere preceduta dall’apprensione preventiva dei beni che saranno poi oggetto di spoliazione definitiva, attraverso lo strumento cautelare del sequestro preventivo, disciplinato dall’art. 321 c.p.p. che prevede, al secondo comma, la possibilità di disporre, appunto, il sequestro dei beni di cui è consentita la confisca.
La competenza ad emettere tale provvedimento, a seguito di richiesta del PM, è rimessa al giudice competente a decidere nel merito; i commi 3 bis e 3 ter dell’articolo in esame consentono, poi, una serie di deroghe in caso di urgenza; la procedura dovrà in ogni caso concludersi con la convalida da parte del giudice procedente.
È opportuna, a tal proposito, una breve considerazione sui presupposti di tale misura e sul controllo che il giudice è chiamato ad effettuare prima dell’emissione del decreto con il quale dispone il sequestro.
Innanzitutto, di fronte ad una fattispecie di reato che preveda la confisca per equivalente, il giudice deve valutare la presenza del cd. “fumus boni juris” .
La giurisprudenza della Suprema Corte ha chiarito che tale controllo debba limitarsi ad un giudizio di compatibilità tra la fattispecie legale e quella concreta, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravità degli stessi. (Cass. pen. S.U. del 23.2.2000)
Principio ribadito anche di recente da una pronuncia della Suprema Corte secondo la quale “ai fini dell’applicazione della misura, non occorre un compendio indiziario che si configuri come grave ex art. 273 c.p.p., essendo sufficiente l’esistenza del fumus del reato secondo la prospettazione dell’accusa sulla base della indicazione di dati fattuali che si configurino coerenti con l’ipotesi criminosa” (Cass. pen. n. 4361 del 30.10.2013)
Si ritiene, dunque, che il giudice non debba spingersi fino ad accertare la fondatezza dell’accusa o la probabilità di una pronuncia sfavorevole per l’imputato.
In secondo luogo, il giudice dovrà valutare la sussistenza di un collegamento tra la persona che subisce il sequestro ed il reato oggetto del procedimento.
Tale collegamento non è richiesto nel caso di sequestro finalizzato alla confisca cd. “diretta”, poiché in tali casi il sequestro ha ad oggetto beni che hanno un collegamento diretto con il reato; l’eventuale estraneità del reo al fatto potrà essere oggetto di esame nel merito.
Nel caso di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, invece, in ragione della struttura propria della misura, che non ha come presupposto la pericolosità in sé del bene, tale collegamento dovrà essere oggetto di attenta valutazione da parte del giudice.
La pericolosità del bene, infatti, è un elemento che sicuramente non è oggetto di valutazione in caso di sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, avendo questa come presupposto proprio l’impossibilità di colpire l’utilità diretta del reato.
È interessante ricordare, inoltre, le differenze applicative – soprattutto alla luce degli orientamenti giurisprudenziali susseguitisi nel tempo – di questo strumento in relazione alla responsabilità amministrativa dell’ente dipendente da reato, di cui al Dlgs n. 231/2001 che, all’art. 19, disciplina la confisca per equivalente nei confronti dei beni delle persone giuridiche.
La giurisprudenza, inizialmente, anche in relazione a tale ambito di operatività, aveva ritenuto sufficiente per la sua adozione la sussistenza di un fumus boni juris, nel senso sopra descritto.
Successivamente si è, viceversa, sviluppato un orientamento giurisprudenziale secondo il quale, stante la natura di sanzione principale ed obbligatoria della confisca si impone, con riferimento alla misura cautelare reale ad essa funzionale, una più approfondita valutazione del presupposto del fumus boni juris, che cioè non si limiti alla sola verifica della sussumibilità del fatto attribuito in una determinata ipotesi di reato.
Se la valutazione cautelare del giudice non attiene più alla pericolosità della cosa oggetto di confisca, ma è subordinata all’accertamento della responsabilità dell’ente, la verifica del giudice non può che riguardare gli indizi a suo carico. (Cfr. Cass. pen. n. 34505 del 31.5.2012)
Vi è, infine, da sottolineare una importantissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione che, chiamate ad intervenire sul contrasto giurisprudenziale creatosi negli anni in relazione al rapporto tra i beni della persona fisica – agente in qualità di legale rappresentante di una società – e quelli dell’ente, hanno espresso il proprio orientamento in relazione alla possibilità di disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, dei beni appartenenti a una persona giuridica per le violazioni tributare commesse dal legale rappresentante della stessa.
Come noto, ad oggi i reati tributari non rientrano tra quelli cd. “presupposti”, a seguito della consumazione dei quali scatta la responsabilità amministrativa dell’ente dipendente da reato e la conseguente facoltà di procedere con la confisca dei suoi beni.
Le Sezioni Unite, segnalando l’irrazionalità della situazione normativa attualmente esistente – per risolvere la quale auspicano un intervento del legislatore, non essendo possibile rimuoverla sollevando una questione di legittimità costituzionale – ci offrono alcuni principi di diritto che di seguito vengono integralmente riportati:
“E’ consentito nei confronti di una persona giuridica il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario commesso dagli organi della persona giuridica stessa, quando tale profitto (o beni direttamente riconducibili al profitto) sia nella disponibilità di tale persona giuridica”.
In questo caso, dunque, si ritiene possibile un sequestro finalizzato alla confisca “diretta” dei beni della persona giuridica, quando tale profitto o beni direttamente riconducibili al profitto siano nella disponibilità di tale persona giuridica.
Tale confisca presuppone, quindi, la dimostrazione che il profitto provenga dal reato tributario e che tale profitto sia nella disponibilità della persona giuridica.
Potrebbe, dunque, procedersi al sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta del profitto del reato di omesso versamento di ritenute certificate commesso dall’amministratore, quando la somma corrispondente all’imposta non versata sia rimasta nelle casse della società.
Non si tratta, quindi, di applicare ai reati tributari quanto previsto per la responsabilità amministrativa dell’ente da reato che, come noto, non prevede tra i reati presupposto quelli tributari.
Infatti, non sarà consentito aggredire i beni della persona giuridica con sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, cioè quando tale profitto o beni direttamente riconducibili allo stesso non siano stati individuati, tranne il caso in cui tali beni siano stati intestati solo fittiziamente all’ente.
“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio”.
Tale principio risulta assolutamente coerente con l’attuale impianto normativo.
La confisca diretta, si osservi, va a colpire il bene direttamente riconducibile all’azione criminosa, non il soggetto, in qualche modo ritenuto responsabile, che ha o detiene o ha la disponibilità nel senso sopra esposto del bene.
Pertanto, non è condivisibile la critica sollevata nei confronti di tale conclusione della Suprema Corte da parte di alcuni autori secondo i quali “si sarebbe dovuto affermare che non è possibile procedere alla confisca per equivalente prima di aver tentato la confisca diretta del profitto di reato, come d’altra parte prevede il primo comma dell’art 322-ter del c.p”
Innanzitutto, la confisca per equivalente è già disciplinata come avente carattere residuale; in secondo luogo tale conclusione non tiene conto del fatto che, come più volte ripetuto, la confisca per equivalente in materia tributaria potrà sì essere effettuata in assenza di apprensione diretta dei beni, ma solo nei confronti del soggetto ritenuto responsabile, che di certo non può essere la società, bensì il suo legale rappresentante.
Non può che auspicarsi, in tal senso, l’intervento del legislatore che, inserendo tra i reati presupposto quelli tributari, risolverebbe alla radice tale dibattuta questione.
Vi è, piuttosto, da interrogarsi sul concetto di intestazione fittizia dei beni alla società, il cui legale rappresentante è ritenuto responsabile del reato tributario.
Si cerca, forse, di evitare che attraverso l’intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto del reato, possano sottrarsi tali beni alla confisca per equivalente?
Si pensi, ad esempio, ad un calzaturificio che svolge l’attività all’interno di un capannone di sua proprietà; in tal caso sarà difficile sostenere che tale “intestazione” è fittizia, avendo la società un bene (capannone industriale) strettamente legato alla propria attività.
Così, stando alla normativa vigente, in caso di reato tributario commesso dal legale rappresentante della società, non sarà possibile aggredire tale bene immobile con la confisca per equivalente. Sarà ovviamente possibile aggredire per equivalente i beni nella disponibilità dello stesso.
Diverso sarebbe, forse, il caso in cui tale calzaturificio fosse intestatario di uno yacht di lusso; sarebbe più facile asserire che tale intestazione è puramente fittizia e finalizzata a sottrarre al Fisco un bene che, se intestato alla persona fisica legale rappresentante della società, sarebbe facilmente aggredibile in caso di violazioni tributarie.
“Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti degli organi della persona giuridica per reati tributari da costoro commessi, quando sia possibile il sequestro finalizzato alla confisca di denaro o di altri beni fungibili o di beni direttamente riconducibili al profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa in capo a costoro o a persona (compresa quella giuridica) non estranea al reato”.
Anche in questo ultimo caso, si ribadisce il carattere residuale della confisca per equivalente, privilegiando la confisca del denaro o di altri beni direttamente riconducibili al profitto del rato.
Alla luce della suesposta pronuncia della Suprema Corte, rimane aperto il dibattito circa la reale portata dei concetti racchiusi nei principi di diritto espressi quali, ad esempio, quello relativo allo “schermo fittizio” della persona giuridica.
Se, dunque, appare facilmente individuabile il fine cui tende la giurisprudenza mediante la fissazione dei suddetti principi, rappresentato dalla volontà di combattere con forza la strumentalizzazione delle figure societarie per ragioni di evasione fiscale, lo stesso non può affermarsi in relazione al metodo con cui si è proceduto a definire i presupposti per la loro applicazione.
Resta da attendere l’intervento legislativo, nonché l’imminente riforma penale tributaria, con l’auspicio che possa essere fatta maggiore chiarezza in materia.
Avv. Filippo Cima